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Viaggio a Porto
Marco Grassano a 16/10/2017
VIAGGIO A PORTO

TESTI DI MARCO GRASSANO
FOTO DI M. ESTER GRASSANO



“L’importante nei viaggi, si sa, è osservare bene
quel che si mangia in ogni angolo, imparare le abilità corporali
e anche le finzioni centrali di ogni Paese.
(La verità è qualcosa a cui si accede attraverso le tecnologie,
ma le finzioni no.
Per conoscere le migliori bugie di un Paese
o di un uomo
dovrai sedergli lungamente al fianco.
Nessuno mente urlando, da lontano.”

(Gonçalo M. Tavares, Un viaggio in India)


“Giornate così non capitano spesso nella vita. Giornate di una felicità intensa,
concentrata. Ed è inseguendo quel vivido miraggio che le persone riescono
a tirare aventi e a invecchiare… nella speranza che vacanze come quelle
possano ripetersi ogni anno.”

(Banana Yoshimoto, Tsugumi)



Porto non mi sembra una Lisbona arcaica, una città dei tempi andati, come fantasticava Borges quando scrisse di Montevideo: “Sei la Buenos Aires che avevamo e che negli anni si allontanò quietamente”.
È una realtà diversa, le cui chiese ricordano piuttosto quelle brasiliane (probabilmente ispirate ai modelli architettonici del Nord, o forse, trattandosi qui di costruzioni del Settecento, quando la colonizzazione delle nuove terre era già avanzata, è accaduto il contrario) e coi vicoli della Ribeira somiglianti più ai carruggi genovesi che non alle stradine di Alfama (Rua dos Canastreiros, dove abitava il Damasceno Monteiro inventato da Tabucchi, pare Sottoripa, per le pareti di pietra squadrata, la pavimentazione a grandi lastre irregolari e i ristorantini affacciati ai portici…).


Rua dos Canastreiros, la Sottoripa di Porto

La lingua è la stessa della capitale, bella e sonora, ma presenta alcune peculiarità lessicali, quasi deliberate: le pastelarias per esempio, dove si suole far colazione o concedersi qualche dolce sfiziosità durante il giorno, qui (e solo qui...) vengono chiamate confeitarias.
Tanti turisti italiani e spagnoli, un po’ meno di altre nazionalità. Prezzi (avendo l’accortezza di servirsi negli stessi negozi e locali frequentati dagli indigeni) sorprendentemente bassi: il primo giorno, subito dopo l’arrivo, abbiamo pranzato (dignitosamente) in due con meno di 13 euro. Identico a quello di tutto il Portogallo il rimpianto malinconico - la saudade - che il luogo lascia in chi l’ha visitato e lo ricorda da lontano…


I

L’INCONTRO CON LA CITTÀ

L’aeroporto è bello, moderno e pulito. Uscendo dalla zona riservata ai passeggeri, una donna bassa e castana ci offre mappe pubblicitarie della città: utilissime, passeggiando, per la dimensione e il dettaglio. Combattiamo per un po’ con una modernissima dispensatrice di altrettanto avveniristici (per i nostri standard) titoli di viaggio, e, avuta finalmente la meglio, saliamo sulla metropolitana di superficie, appena posizionatasi sul binario in attesa dell’orario di partenza.
Linea E, la viola, direzione Estádio dos Dragões. Carrozze anch’esse belle, moderne e pulite, attrezzate di schermo e audio per annunciare di volta in volta il nome della fermata. La nostra carrozza pian piano si riempie. Un giovane sale spingendo una mountain bike. Due ragazze, sedute alla mia sinistra, parlano francese (una di loro deve però essere figlia di immigrati portoghesi, visto l’accento impeccabile che sfodera poco dopo in una conversazione telefonica, per dire che stanno arrivando e a quale fermata scenderanno – poco successiva alla nostra). Di fronte a me prende posto un uomo tarchiato, brizzolato, che uscirà assieme a noi.
Partiamo. Sulla destra appare un enorme cumulo di rifiuti fini, grigiastri, parzialmente coperti da teli verdi e punteggiati dal luccichio di frammenti di vetro: un centro di trattamento e riciclaggio, da cui spunta la tozza ciminiera a grandi fasce bianche e rosse. Un tratto di campagna rigogliosa, senza edifici. Cielo sereno, intensamente azzurro. Le prime case basse, da una parte e dall’altra. I binari continuano a correre in superficie, solo di tanto in tanto infossandosi fra muraglie di cemento o attraversando tratti coperti. Il rosso centro culturale (anche la scritta è vistosa) Senhora da Hora.
Filiamo ancora per un po’ in parallelo allo scorrimento del traffico di automobili, poi ci immergiamo nel sottosuolo, e in pochi minuti arriviamo alla nostra fermata, Bolhão, vicina al mercato coperto omonimo.
Trasciniamo i nostri trolley lungo la pedonale Rua de santa Catarina: una piccola chiesa dalle pareti piastrellate in azzurro, marciapiedi selciati in cubetti color panna e istoriati da altri neri, il centro via pavimentato di autobloccanti grigi, denso flusso di persone in entrambi i sensi, bancarelle, esplanadas di bar e birrerie, vetrine per lo più di abbigliamento. In fondo, la chiesa di S. Ildefonso esibisce sui muri disegni di azulejos. Saliamo alcuni scalini, attraversiamo il sagrato esterno alla parte cintata da sbarre e chiusa da una cancellata, saliamo altri gradini e arriviamo alla Rua de S. Ildefonso. Sampietrini color ardesia. L’enorme vetrina della marmorea hall di un albergo per stranieri. Bottegucce di souvenirs e di alimentari. Targhe di artigiani e di professionisti. Un chioschetto di legno, con attorno tavolini, diffonde musica e offre vino. Proseguiamo fino al n° 100, sovrastato dall’insegna Residencial Belo Horizonte. Ci riceve, al primo piano, la giovane Sofia, che mi chiede, incuriosita, se parlo la lingua perché ho famiglia portoghese. Ci assegna la camera 08, al piano superiore. Paghiamo il conto e saliamo a depositare i bagagli.


La chiesa di Sant’Ildefonso


PRANZARE A PORTO

Usciamo subito dopo per pranzare al Café Santiago, a pochi metri dalla pensione, sull’altro lato della via. Ci sediamo al bancone, appollaiati su alti sgabelli. Attorno a noi - al banco e ai tavoli - buona parte degli avventori affronta con impegno, brandendo coltello e forchetta, monumentali francesinhas: specie di corposi panini tostati, imbottiti di salsiccia e carne grigliata, inondati di una salsa giallina, sormontati da una sottiletta fusa e da un uovo all’occhio di bue e adagiati su un cuscino di patatine fritte. Una simile bomba proteica e calorica non ci attira. Riassaporo con gusto il caldo verde, cui faccio seguire ottime costeletas de sardinha immerse in un piacevole riso al pomodoro (piatto per il quale opta anche il mio vicino di sinistra, abbinandogli un bicchiere di vino rosso); mia figlia sceglie una zuppa di verdura e una ricca insalata verde. Comprendendo anche l’acqua minerale, il conto ci stupisce per la sua esiguità: 12,60 euro. Quasi mi commuovo; qualche inspiegabile ragione mi suscita tenerezza verso questa gente tenace e triste.


ESPLORARE LA CITTÀ

Cominciamo a esplorare la città. Imbocchiamo, di fronte a S. Ildefonso, la stretta Rua Cimo de Vila. Angusti ingressi di localini (a volte rintanati nel sottosuolo) su entrambi i fianchi. Insegne di calzolai e altri artigiani. La confluenza nella più ariosa Rua Chã, da cui una traversa permette di raggiungere la stazione di S. Bento.
L’ampia avenida D. Afonso Henríques, con a destra la Stazione e a sinistra la Cattedrale. Saliamo al sagrato di quest’ultima - essa sì somigliante alla sua omologa di Lisbona nella massiccia monumentalità dorata della pietra antica - e gettiamo uno sguardo poco interessato al sontuoso interno del tempio.
Aggiriamo il palazzo episcopale e scendiamo le ripide scalinate das verdades, delle verità. Su una casa intonacata in giallo ocra, l’ironica placca metallica mentiras, bugie. Invece di continuare direttamente verso la Ribeira, seguiamo un viottolo acciottolato un po’ sconnesso e inerbito ai lati – al centro, lastre di pietra coprono la canalina di scolo, come nell’antica Roma – che si raccorda alle scalinate Codeçal. Una gatta nera, cieca da un occhio, ci si avvicina e inizia a rotolarsi a terra, chiedendo coccole.
Arriviamo accanto al capolinea della funicolare, di fronte all’imbocco inferiore del Ponte D. Luís I. La struttura si direbbe progettata da Gustave Eiffel (cui è intitolata la litoranea appena a monte), ma in realtà l’ingegnere francese ha disegnato il ponte della ferrovia che si intravede più in su, oltre la curva del fiume, molto simile a questo e probabilmente anteriore.


Il ponte Dom Luís I

Sull’acqua sfila, verso destra, un battello carico di turisti. Da una larga scalinata in legno (sotto di essa, delimitati da spesse e fitte grate color zinco, i bagni pubblici) scendiamo al lungofiume. Lo spazio tra le due file di bancarelle, coperte da teli bianchi (in esposizione, souvenirs, capi di abbigliamento, prodotti alimentari), è popolato di compratori o di semplici curiosi.
Pontili mobili, in lento dondolio, conducono a motonavi più o meno grandi che offrono, per 15 euro, il “cruzeiro das seis pontes”, escursione fluviale di una cinquantina di minuti. Esplanadas di diversi locali propongono varie combinazioni gastronomiche.
Ci infiliamo nei vicoli, sulle tracce del romanzo portuense di Tabucchi, ma davvero vi troviamo un angolo urbano della Genova più antica (curioso che lo scrittore, per anni docente nel capoluogo ligure, non abbia rilevato l’analogia). Torniamo sul fiume, lungo il molo lastricato di chiare placche rettangolari fino al punto in cui esso divalla nell’acqua fra barche e gomene. Mi vengono in mente i versi di Pessoa, scritti pensando a un’altra banchina:

“Ah, ogni molo è una nostalgia di pietra!
E quando la nave salpa
e ci si accorge all’improvviso che si è aperto uno spazio
tra il molo e la nave,
mi coglie, non so perché, un’angoscia nuova,
una nebbia di sentimenti di tristezza…”


Il lungofiume della Ribeira

Dal vicino largo su cui si affaccia una chiesetta bianca risaliamo verso la piazza-giardino con la statua impettita dell’Infante D. Henrique, il mercato rosso e il Palazzo della Borsa - che non ci interessa visitare. Cerchiamo piuttosto di raggiungere Rua das Flores e Rua do Ferraz, sempre su suggestione di Tabucchi (lì aveva lo studio e il palazzo di famiglia l’avvocato Lotón).
Arriviamo in Largo S. Domingos. Rua das Flores decolla lentamente verso sinistra, oltre una bassa aiuola e una cascatella di tavolini esterni sostenuti da pedane e protetti da ombrelloni. Se ne vedono altri sparsi, a gruppi, lungo tutto il tracciato. La via è stata risistemata per l’uso e nel gusto dei turisti. Una tondeggiante scultura bronzea, con appendici allungate, sorge dal selciato - e pende dal balcone al proprio incontro - di fronte a uno di questi armazéns messi a nuovo.
La stretta Rua do Ferraz sale ad angolo retto, ancora a sinistra: ma non ci pare così faticosamente ripida come la dipingono, nel romanzo, le parole dell’obeso legale. A smentire ulteriormente il presunto Lotón, nessuno dei relativamente modesti edifici, dai colori tendenti al marroncino, che la fiancheggiano mostra l’imponenza adatta per essere il palazzo avito di una nobile stirpe locale. Sull’angolo destro dello sbocco in Rua da Vitória, una casa è nascosta da teli e ponteggi, per una ristrutturazione.
Siamo nell’antico quartiere ebraico. File di case a due piani, dai colori pastellati: azzurrine, rosa, gialline. A destra, la ripida e angusta Travessa do Ferraz. Muraglie cieche di pietra e cemento a sostenere un dislivello o a vietare uno spazio. Brutti disegni a spray su qualche parete. Gli edifici si fanno più alti e raffinati. Incombe un tozzo campanile.
Una musica amplificata ci attira sul selciato a destra, che sale a un edificio bisognoso di restauro. Nel Miradouro da Vitoria, da dove proviene la melodia (stanno allestendo un palchetto per spettacoli), scattiamo foto al paesaggio sottostante. Una locandina annuncia, per la sera dopo, l’esibizione di alcuni cantanti di fado. Non mi interessa: qui è fuori posto, come i gondolieri veneziani che cantano O sole mio.
La Rua S. Bento da Vitória assume un carattere più elegante e – sul lato sinistro - imponente, anche se un po’ trascurato. Ma il recupero si sta avviando: sulla facciata della bella casetta al numero 44, una targa informa che l’edificio ha vinto il premio comunale per la migliore ristrutturazione urbana.
Ci fermiamo un attimo accanto alla Fonte do Olival, che zampilla da una parete del Centro Portoghese della Fotografia. Lo visiteremo nei prossimi giorni.
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